Estratti audio di un insegnamento
di Ghesce Yesce Tobden sulla ‘vacuità’
(Traduzione orale di Anna Maria Depretis. Trascrizione ed editing di Caterina Lupato)
Prima di tutto noi pensiamo “… IO!” E questo ‘io’ ce lo raffiguriamo come fosse a sé stante’. Così proviamo attaccamento verso coloro che ci fanno del bene e avversione verso coloro che ci danneggiano. Produciamo quindi karma, che ci fa girare nel samsara, e senza scelta ripetutamente si rinasce, si muore e si rinasce, e la ruota del samsara per noi continua a girare.
Tutte le afflizioni mentali sono radicate nella visione del transitorio, nel concepire se stessi come esistenti in un modo intrinseco, a sé stante.
Lo yogi si rende conto di questo e sa distinguere l’‘io’ convenzionale – quello funzionale che agisce, parla, si muove – da un ‘io’ a sé stante, che invece non esiste affatto. L’‘io’ è meramente designato sulla sua base – gli aggregati; è un io semplicemente nominale, non è a sé stante, mai ‘a sé stante’! Infatti, se lo si cerca, provando a localizzarlo lì dove esso viene designato, non lo si trova. Questo indica appunto che non è a sé stante, che non è oggettivo, che non è intrinsecamente esistente, ma è semplicemente nominale.
Qunidi un ‘io’ meramente nominale, funzionale, esiste, però da un tempo senza inizio noi andiamo configurando e ci aggrappiamo a un senso di identità personale, a un ‘io’ a sé stante, e ciò crea poi una predisposizione dovuta proprio a tale tendenza e abitudine, alle impronte. Ecco allora che l’‘io’ ci appare come fosse a sé stante, e noi aderiamo e crediamo a questo suo modo di apparire: siamo convinti che esista effettivamente così!
Ma allora cosa possiamo fare? Ebbene, dovremo scoprire che l’‘io’ non esiste in un modo a sé stante, che l’‘io’ non esiste così come ci appare, che non esiste un ‘io’ che non sia meramente designato. Allora si smetterà di dar credito all’‘io’ così come ci appare, e penseremo: “Appare così, appare come se fosse a sé stante, ma non esiste così!”
Bisogna smettere di ritenere attendibile questa ignoranza, questa confusione circa la propria identità. Finché non si entra nel merito, finché non ci rendiamo conto che questo ‘io’ che ci appare non corrisponde alla realtà, allora l’illusione, l’afflizione mentale, l’allucinazione cognitiva non smetterà di operare. Quindi occorre proprio realizzare che non c’è un ‘io’ stabilito così come appare. Qualcosa che non sia meramente designato – ossia che sia a sé stante – non c’è! Bisogna disilludersi, e farsi persuasi che le cose stanno così, che quell’‘io’ concepito come a sé stante non c’è.
Si può però correre il rischio di cadere nel nichilismo, perché si può arrivare a pensare: “Allora io non esisto, allora le cose non esistono, allora non c’è nulla”. E invece, il fatto che si neghi l’esistenza a sé stante non implica una negazione assoluta: ciò che si nega è che le cose siano così come ci appaiono, ossia appunto come a sé stanti, come intrinsecamente esistenti.
Esiste la ‘vera’ esistenza?
Esiste per la mente confusa, esiste per l’ignoranza che concepisce un’esistenza intrinseca, a sé stante, ma non esiste effettivamente, seppure appaia. La vera esistenza non esiste neanche a livello convenzionale, non esiste affatto, c’è un vuoto di essa, insomma non c’è.
(ora c’è un’interruzione nel file)
Quindi bisogna confutare la vera esistenza, affermarne l’assenza assoluta.
Qualcosa che sia a sé stante, che sia non meramente designato è escluso che ci sia. Bisogna capire che qualcosa che sia a sé stante non c’è, qualcosa che non sia meramente designato non c’è. Non c’è niente che non sia meramente designato.
Poiché si crede invece il contrario, allora si crea karma, mentre il processo di comprensione della realtà effettiva consente di procedere verso l’illuminazione.
(ora c’è un’altra interruzione)
Nel Pramanavartika si spiega che quando si concepisce sé/altri, io/altri, quando viene fatta questa distinzione, ecco che si creano azioni dominate dall’afferrarsi a un proprio sé, e quindi si creano cause per l’esistenza ciclica.
(ora c’è un’altra interruzione)
La confusione circa l’identità personale, o identità propria, è il punto essenziale che va contrastato. Nagarjuna nel Mula Madhyamaka Karika illustra come essa abbia un impatto sulla produzione di tutti i dodici anelli della produzione dipendente.
Quel modo erroneo di concepire se stessi e di concepire le cose non è realistico, non è effettivo, non è perfetto, non è impeccabile. È proprio sulla base di questo concepire in modo sbagliato che si creano azioni, che si crea il proprio samsara.
(ora c’è un’altra citazione)
Proprio come nel corpo la testa è ciò che include tutte le altre facoltà sensoriali, così l’ignoranza – la confusione circa la propria identità, è ‘il capo’ di tutte le afflizioni, ed eliminando la prima vengono a essere eliminate anche le altre.
Con un’altra metafora: proprio come uccidendo la madre, o impedendo che la madre generi dei figli, si impedisce che nascano i suoi figli, allo stesso modo evitando l’ignoranza si evita la produzione delle altre afflizioni.
Rendendosi conto che il seme dell’esistenza ciclica è proprio il concepire i fenomeni come veramente esistenti, si escluderà l’esistenza a sé stante di ogni cosa, si comprenderà che tutto ciò che esiste non ha un’esistenza a sé stante, e si eviteranno tutte le afflizioni.
Per porre fine al divenire ciclico occorre intervenire sul suo seme
(n.d.t.: a volte lo pronuncia come se-pe altre come si-po, comunque sono entrambi fattori radicati nell’ignoranza fondamentale, e a volte dice l’uno, a volte dice l’altro. Siamo al minuto 0,19 di questo file).
Occorre realizzare la vacuità perchè bisogna porre fine al samsara.
Tutti gli esseri senzienti stanno vagando nell’esistenza ciclica da così tanto tempo! Stiamo nascendo e vivendo nell’esistenza ciclica da un tempo senza inizio!
Un inizio non c’è, però c’è un modo per porre fine al samsara, per interrompere il ciclo del divenire.
Occorre realizzare come stanno effettivamente le cose e diventarne familiari.
A tutte le cose, a se stessi, a tutti i fenomeni – che in realtà sono privi di un’esistenza a sé stante – la nostra mente attribuisce invece un’esistenza a sé stante. È questo il punto nevralgico: il fatto che si concepisca l’esistenza sé stante di ogni fenomeno, l’averne un senso di oggettività, di concretezza.
Bisogna realizzare come stanno effettivamente le cose e acquisirne familiarità.
Questo è il modo in cui stanno le cose: noi riteniamo, la nostra mente si configura, pensa, come se noi fossimo rintracciabili negli aggregati secondo il nome con cui veniamo designati. Però, a seguito di una ricerca, di un’analisi, non ci troveremo, e non si troverà alcunché, non si localizza alcunché; e questo mostra che c’è una mancanza di esistenza a sé stante, che non esiste niente che sia a sé stante.
Sembra come che ci si possa ritrovare, localizzare da qualche parte, però se si ricerca si scopre che non è così e allora si confuta quel tipo di percezione, di apparenza, si riscontra la mancanza di quello che sembra come se esistesse in quel modo. Nel Pramanavartika, a proposito della saggezza che comprende la vacuità, ossia la mancanza di esistenza intrinseca, si afferma che tale saggezza si oppone, nuoce, all’ignoranza che concepisce fenomeni a sé stanti, ed essa è ciò che va eliminato per smettere di girare nell’esistenza ciclica.
Quindi il samsara non ha inizio, ma ha fine. Riguardo al proprio samsara, da un tempo senza inizio stiamo vagando in esso, quindi non ha inizio, ed è difficile ovviamente porre fine a questo meccanismo ciclico avendo luogo appunto da un tempo senza inizio, ma dal momento che tutti i fenomeni sono privi dell’esistere a sé stanti, o per natura propria, ciascuno di noi individualmente, con la propria mente, può portare avanti un’analisi, può indagare, per capire se le cose sono o meno a sé stanti. E si riflette e si cerca, si scoprirà che ciò che prima sembrava riscontrabile, in realtà non lo è. In questo modo ci si oppone alla falsa credenza, a quell’impressione, a quell’apparenza, si esclude che i fenomeni esistano così come sembrano.
L’ignoranza concepisce un sé a sé stante, ma ricercandolo non lo si trova, e si riscontra allora che non esiste così come appare, che non è intrinseco, non è oggettivo; si scopre che ciò che sembrava fosse trovabile non c’è affatto.
Bisogna però cercarlo per poter scoprire di non trovarlo, per poter verificare che non esiste così come appare. Ed è la saggezza della vacuità, la saggezza che cerca di arrivare alla comprensione della vacuità che ha questo compito.
Quindi ci sono due visioni riguardo alla realtà, e o vince l’una o vince l’altra: da un lato c’è l’ignoranza che concepisce un sé intrinseco, dall’altro la saggezza della vacuità. Esse sono mutualmente esclusive, non possono convivere, una esclude l’altra.
La saggezza che comprende la vacuità elimina l’ignoranza, proprio perché scopre che il concepire l’esistenza a sé stante è una visione distorta, falsa, errata. Se un sé esistesse così come sembra, allora bisognerebbe poter trovare, poter incontrare questo qualcosa a sé stante!
Il proprio samsara non è eterno, non è immutabile, non è che a esso non si possa porre fine. La sofferenza propria all’esistenza ciclica è individualmente superabile sulla base di un processo personale.
Se non si riflette riguardo alla sofferenza propria dell’esistenza ciclica, non ci si potrà liberare da essa.
Qual è la radice dell’esistenza ciclica? Bisogna pensarci e domandarcelo. Ebbene, è l’ignoranza che concepisce un sé – o identità – a sé stante: questa è la radice del proprio divenire ciclico! Quindi bisogna arrivare a comprendere che il sé che si concepisce in quel modo non corrisponde alla realtà; e per confutare quella falsa idea che ne abbiamo, quel considerarci a sé stanti, bisogna coltivare la saggezza.
L’ignoranza del concepire la vera esistenza è il fondamento in base al quale si concepisce una personale identità a sé stante.
In definitiva, occorre contrastare l’idea dell’esistenza vera. Senza affidarsi alla saggezza che comprende il non sé, la non ‘vera’ esistenza, e che comprende invece che tutto è relativo e dipendente, che non c’è niente di non relativo, di indipendente, che non c’è alcunché che sia indipendente, a sé stante, non relativo. Bisogna proprio rendersi conto che non esiste tale indipendenza, questa esistenza a sé stante.
Milarepa dice … (Ghesce-la sta leggendo, al 3.17 e poi al 4.06) che si comincia col mettere in dubbio il modo in cui i fenomeni esistono, per poter poi accertare e convincersi che non sono così come appaiono, e allora si smetterà di dare credito alle apparenze.
(Ora sta cominciando a parlare di bodhicitta)
Bisogna assicurarsi di sviluppare i tre punti essenziali del Sentiero: la rinuncia, la bodhicitta (la compassione verso tutti gli esseri senzienti) e la saggezza che comprende della vacuità, che ha la corretta visione della realtà.
Per ottenere bodhicitta è necessario sviluppare prima di tutto la rinuncia.
(dal minuto 1,12 si passa ad altro)
È inoltre indispensabile avere coscienziosità, aver cura delle proprie azioni, anche delle più piccole azioni distruttive, per evitare le cattive migrazioni.
Una volta rinati negli stati inferiori dell’esistenza ciclica sarebbe veramente raro e difficile poter ottenere di nuovo una preziosa rinascita umana, o uno stato elevato da esseri umani, poiché in quei reami è difficile creare virtù; e, senza virtù, come si possono ottenere buone rinascite come quella umana?
Quindi, bisogna assolutamente far sorgere la determinazione di non cadere, di non sprofondare nelle cattive migrazioni, di non crearne le cause; e ciò è possibile grazie alla coscienziosità, al prendersi cura delle proprie azioni.
(Citazione da un sutra, al 3,1) Il problema, il punto focale, è la confusione del concepire una ‘vera’ esistenza. E bisogna allora coltivare la saggezza che realizza la mancanza di un’esistenza a sé stante, intrinseca, la saggezza che ha la visione di cosa c’è o non c’è a un’analisi ultima, di qual è la propria natura, la saggezza che percepisce la realtà ultima, priva di elaborazioni.
Alla saggezza che percepisce l’ultimo appare soltanto la vacuità: non appare alcunché di relativo, di convenzionale, nessun fenomeno se non la vacuità.
Qualunque apparenza convenzionale, qualunque percezione di vera esistenza, qualunque elaborazione concettuale, in quel contesto è assente: non appare alcunché se non la vacuità, soltanto ed esclusivamente la vacuità.
Per la mente che percepisce il convenzionale ci sono le apparenze dei fenomeni, però di fronte alla saggezza trascendentale che percepisce l’ultimo non appare nient’altro che la vacuità. Alla saggezza che indaga e ha la visione della realtà ultima, in quel contesto, non appaiono fenomeni convenzionali.
(Sta leggendo, sussurrando) Seppure essi appaiono come a sé stanti, come veramente esistenti, si riscontra invece – a seguito di un’indagine, di una verifica ultima – che tale tipo di esistenza non corrisponde alla realtà.
Sulla base di queste due prospettive si stabiliscono quindi due verità, e allora bisogna iniziare innanzi tutto andare a verificare quali sono i due livelli di verità.
(Siamo ora al minuto 3,08)
Non c’è alcun nascere per natura propria, un nascere indipendente, un’autocreazione; si stabilisce la vacuità di un’autogenerazione, del prodursi da se stessi. E invece ogni nascita dipende da qualcosa.
Attraverso tale processo di analisi della natura dei fenomeni condizionati – che sono cioè condizionati da altro, dipendenti da altro – si arriva a escludere che essi siano a sé stanti e quindi prodotti da sé, che vi sia una loro autoproduzione.
Qualunque fenomeno o aggregato, qualsiasi cosa, esiste sulla base di un insieme di fattori, e viene ad essere determinato e configurato come una certa cosa oppure un’altra dalla mente che gli attribuisce un nome.
Qualunque fenomeno viene denominato, o designato, dalla mente, così come per esempio si designa ‘terra’ questo fenomeno duro, solido e ostruente.
Di fronte alla saggezza che ha come oggetto l’ultimo non appare alcunché, ma di fronte alla saggezza che ha come oggetto il convenzionale, gli aggregati, la base della vacuità, essi appaiono. Alla saggezza che recepisce la mancanza dell’esistere a sé stante, gli aggregati non appaiono, ma solo la vacuità, e in questo caso si parla del loro livello ultimo di realtà.
Ora, il fatto che in quel contesto la base dei fenomeni non appaia non sta a significare che essi non esistono. Il vaso (per esempio) di cui si comprende che non c’è un’esistenza a sé stante – e di cui quindi in quel contesto appare soltanto la vacuità di esistenza a sé stante – non è che venga negato del tutto, non è che venga esclusa l’esistenza del vaso.
Quando sulla base del vaso viene portata avanti l’analisi circa la vera o non vera esistenza del vaso, si riscontra che esso non è oggettivo, che non è a sé stante; quindi non appare il vaso, ma appare solo la mancanza dell’esistenza a sé stante del vaso, la sua vacuità, tuttavia il fatto che in quel contesto esso non appaia non deve portare a concludere che allora il vaso non esiste affatto.